Debutta in prima assoluta, al Coccia, l’opera del compositore Giampaolo Testoni


Fantasio-Fortunio
Debutta in prima assoluta, 
prodotta da Fondazione Teatro Coccia con Bartók Plusz Operafesztivál, 

l’opera del compositore Giampaolo Testoni, autore anche del libretto, 
dittico liberamente tratto da Alfred de Musset

Venerdì 21 dicembre 2018, ore 20.30

Prosegue nella stagione 2018/2019 l’esperienza del Teatro Coccia di Novara che da sei anni ospita e produce un’opera di un autore contemporaneo. Quest’anno il maestro Giampaolo Testoni ha composto, per debuttare venerdì 21 dicembre 2018, Fantasio-Fortunio: 2 Commedie Liriche, Dittico liberamente tratto da Alfred de Musset. Il libretto è scritto dallo stesso Testoni, la regia e le scene sono di András Almási-Tóth, in buca l’Hungarian State Opera Orchestra diretta dal maestro Balázs Kocsár.
Il dittico Fantasio – Fortunio offre uno sguardo limpido e appassionato al tema dell’amore e delle sue illusioni, al gioco e al fraintendimento delle sue apparenze e dei suoi inganni, non prendendo mai però una posizione moralistica o filosofica sulle sue conseguenze e sui comportamenti delle sue “vittime”. In questo atteggiamento la leggerezza e la sottile, ma profonda espressività dei dialoghi, rimanda allo Shakespeare delle commedie e ai testi lirici dei primi romantici tedeschi ma soprattutto allo spirito umoristico e all’energia vitale di Rossini nelle sue opere comiche rispetto al tema dei rapporti amorosi nei loro equivoci e inganni. 

La musica, come in altri illustri precedenti novecenteschi, allude alle forme dell’opera settecentesca e rossiniana in particolare, con una reinvenzione del recitativo secco e delle forme chiuse ma in un linguaggio che del grande autore pesarese ricalca l’atteggiamento di aerea leggerezza e sottile vena malinconica tratteggiata dal sorriso e dalla maliziosa intrigante perfidia tipica di molte sue opere.


Nel dittico, oltre alla somiglianza palese tra i due protagonisti, Fantasio e Fortunio, entrambi giovani sognatori, annoiati ma presi dai loro slanci vitali e poetici, si può rilevare la gestualità teatrale e psicologica legata all’idea del “travestimento”, dell’essere qualcun altro nel sotterfugio e nella finzione, allo scopo di ottenere amore e identità in un contesto nuovo più adatto e migliore. La stupidità, l’ingenuità, l’inganno e lo scambio anche divertito di ruoli in un leggerissimo adorabile giocare con i sentimenti rimanda a Marivaux e Hoffmann ma anche a Rossini e Mozart.

Per sottolineare platealmente e idealmente lo scambio e il travestimento per essere qualcun altro sulla scena come nella vita, ecco che Fantasio e Fortunio sono interpretati da voci femminili, nel solco di una bella e scintillante tradizione operistica che da Rossini giunge fino Strauss. La ricerca di un dialogo chiaro tra i personaggi e una volontà di fare teatro con il teatro stesso ha guidato la scelta di un organico strumentale ridotto, cameristico anche se potenzialmente ricco di tutte le sfumature coloristiche e timbriche.

L’ambientazione del dittico è, anche per esplicita indicazione di Musset, vaga e indefinibile per epoca, lasciando la libertà dell’allestimento tutta legata ai pochi segnali che conformano i personaggi. Questo tipo di teatro, fuori dal tempo e da uno spazio storicamente accertabile, lega le due commedie liriche al territorio shakespeariano, rossiniano ma anche alla mia opera Leonce e Lena, tratta da Buchner, autore che possiamo legare per incredibile somiglianza e affinità a Musset.

I personaggi sono quasi degli archetipi, ci sono Re e Principi, promesse spose e buffoni di corte, attendenti e giovinastri senza scopo, amanti annoiati e mariti ignari di ogni inganno, si mescolano leggerezza e poesia, riso e sconforto, illusioni, giovinezza, tutto insomma quello che può contenere la passione e l’animo umano anche moderno in una sola certezza, quella che il giocare sul palcoscenico ha molto a che fare con quello che accade nella realtà prosaica delle nostre vite quotidiane e a volte lo supera nelle sue variabili promettendoci soluzioni diverse dalle consuete mediante il soffio leggero del sussurro e del canto, del travestirsi in qualcun altro che comunque ci somiglia moltissimo. 
La serata sarà anche l’occasione per incontrarsi al termine dello spettacolo per un brindisi e una fetta di panettone e uno scambio di auguri e saluti nel foyer del teatro, con il recente re-styling, frutto della generosa collaborazione di Vetreria Azzimonti e Righetti Mobili e con il bellissimo albero di Natale donato da Riseria Ceriotti.
Biglietti dai 15,00 ai 30,00 euro in vendita su www.fondazioneteatrococcia.it oppure presso la biglietteria del teatro in Via Rosselli, 47 a Novara, aperta da martedì a sabato con orario 10.30 – 18.30 (t. 0321.233201).
La produzione è sostenuta da Fondazione CRT-Cassa di Risparmio di Torino. La stagione 2018/2019 è realizzata con il contributo di Comune di Novara, Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Regione Piemonte, Fondazione Piemonte dal Vivo, Fondazione Banca Popolare di Novara, Gruppo DeAgostini, Fondazione Cariplo.



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GIAMPAOLO TESTONI – Compositore e Autore Libretto

“Fin dal suo esordio alla Biennale di Venezia del 1981, ho notato Giampaolo Testoni per la sua autenticità e per l’eleganza aristocratica del suo comporre. Il musicista milanese era impegnato in una scrittura formicolante che evidentemente pagava un tributo all’avanguardia; ma su quel tessuto, cangiante e vibratile, sembrava intento a ritagliarsi un abito classico. Un’avanguardia che guardava indietro.  Attraverso la sua prima produzione (inizio anni Ottanta) - situata intorno all’importante Sinfonia n. 1 – Testoni ha mirato al massimo della complessità della scrittura, entro i limiti della leggibilità. Prese parte inizialmente alla corrente dei Neoromantici, perseguendo nei suoi lavori un carattere unitario. Nulla nella sua musica è nel segno dello sfumato, e tutto in essa converge verso un ideale di canto in cui i linguaggi novecenteschi vengono rimeditati in un sincretismo artistico: non è questione di nostalgia, ma la certezza che il grande fiume della musica tonale e post-tonale è lingua viva, che non ha ancora esaurito le proprie possibilità espressive. Testoni abbraccia questo passato nello stesso momento in cui sembra idealizzarlo, ma il risultato si discosta dal modello, poiché ciò è nella natura delle cose. La sua musica è dotata di una velocità interiore che potremmo collegare all’urgenza espressiva della sua natura di artista, indifferente alle categorie della presunta modernità, e legata invece a un’idea di forma in cui il musicista incanala un’invenzione sovrabbondante. Testoni sa di possedere una mano di strumentatore mirabile. Ottiene dall’orchestra colori, vortici e velocità. Incanta con le atmosfere del sogno. Affascina con una forza travolgente. E soprattutto ha un senso del bello e del “lusso” musicale di grande attrattiva, senza mai cedere al decorativismo fine a se stesso. Però tutta questa qualità musicale è dirottata verso un’espressione tesa e per nulla pacificata. Egli si mostra artista a volte cupo e drammatico, non insensibile alle finezze strumentali, ma di natura potente e viscerale nell’espressione. Non c’è parodia o ammiccamento in lui, ma espressività musicale diretta. Scrive per lo più forme variate, in cui l’invenzione sta soprattutto nella trasformazione. Testoni appartiene a quella serie di autori portati per un pensiero musicale ininterrotto e tendenzialmente generato da un solo tema: sistema elaborativo definito dalla musicologia tedesca “Forstspinnung”. Il suo pensiero sinfonico-elaborativo è incalzante fino all’ossessione. Il gesto compositivo opulento e l’ansia di comunicazione lo portano verso un linguaggio unitario nato dalla fusione di diversi modelli che lavorano in sovrapposizione.” Franco Pulcini, musicologo

Nato a Milano nel 1957, tra i fondatori del movimento musicale cosiddetto “neoromantico”, è stato allievo al Conservatorio G. Verdi di Milano, di Angelo Paccagnini per Composizione e Musica Elettronica e poi, diplomandosi in Composizione, di Niccolò Castiglioni. Ha esordito come compositore nel 1978 al “MusicWorkshop UNESCO” di Copenhagen. Nel 1980, con Le nuvole per orchestra da camera, è premiato alla “Rassegna Internazionale di Musica e Teatro da camera della Associazione Filarmonica Umbra” su segnalazione di Goffredo Petrassi. Nel 1981 partecipa alla prima edizione della “Rassegna Venezia Opera Prima” e alla “Biennale Musica” di Venezia intitolata “Dopo l’Avanguardia”, riscuotendo un brillante riconoscimento di critica e pubblico. La RAI sceglie Le nuvole per partecipare nel 1982 alla “Tribuna Internazionale dei Compositori” a Parigi, gli commissiona nel 1983 la Prima Sinfonia per l’”Orchestra Sinfonica di Milano” diretta da John Mauceri, nel 1984 il Notturno, le Wonderland Variations e la orchestrazione del ciclo pianistico Come io passo l’estate di Niccolò Castiglioni per l’"Orchestra A. Scarlatti” di Napoli diretta da Roberto Abbado. Dall’esordio alla Biennale veneziana la sua musica viene commissionata ed eseguita in festival, teatri e stagioni concertistiche in Italia e in Europa, tra cui ricordiamo i “Pomeriggi Musicali” di Milano per la cui orchestra ha scritto nel 1990 la Seconda Sinfonia e nel 1996 il Concerto per archi; l’”Arena di Verona” che gli commissiona nel 1994 la Ouverture per orchestra poi ripresa nella stagione 1995 dell’”Accademia Nazionale di S. Cecilia” a Roma diretta da Daniele Gatti; la “Società del Quartetto” di Milano che ospita la prima esecuzione nel 1996 del ciclo liederistico Sette Canti Romantici, commissionato dal soprano Barbara Frittoli; nel 1997 scrive per i Percussionisti della Scala i Nove Studi Spirituali che eseguono il brano in prima al “Ravenna Festival” e nello stesso anno la “Sagra Musicale Umbra” ospita le prime esecuzioni del Divertimento per 14 strumenti e di Te lucis ante terminum per coro femminile e pianoforte (in memoriam N. Castiglioni); nel 1998 al “Teatro alla Scala” di Milano gli Strumentisti della Scala eseguono il Quintetto per clarinetto e archi. Dal 1986 al 1992 scrive l’opera in tre atti Alice su libretto del poeta Danilo Bramati, che va in scena in prima mondiale nel 1993 al “Teatro Massimo” di Palermo con la regia di Sandro Sequi, Alessandra Ruffini / Carmela Remigio interpreti sotto la direzione di Daniele Callegari; nel 1997 Alice è pubblicata su CD dall’etichetta AGORA’. Ha insegnato Composizione presso il Conservatorio di Trento-Riva del Garda e ha collaborato dal 1996 con articoli e recensioni al “Giornale della Musica”. Nel 1997 ha orchestrato il ciclo pianistico di F. Liszt L’albero di Natale e nel 1998 Carnaval di R. Schumann, commissionato ed eseguito in prima assoluta italiana dall’”Orchestra I Pomeriggi Musicali di Milano” e in prima mondiale ad Anversa dall’“Orchestra Filarmonica delle Fiandre“ entrambe dirette da Daniele Callegari. La “Sagra Musicale Umbra” gli ha commissionato per le celebrazioni pasquali dell’anno 2000 il salmo Haec dies per tenore e orchestra, in occasione della Messa Giubilare di Resurrezione. Dal 2003 collabora con la coreografa Emanuela Tagliavia e il videoartista e coreografo Davide Montagna scrivendo le musiche per gli spettacoli La lezione-M’encanta (Ravenna Festival 2007), 506 (Museo della Scienza e Tecnologia di Milano, settembre 2006) e Luminare Minus (Festival MI-TO, settembre 2007) con danzatori della “Scuola di Ballo dell’Accademia Teatro alla Scala” di Milano.



ANDRÁS ALMÁSI-TÓTH – Regia e scene

Si è laureato presso l'Università di Teatro e Arti cinematografiche nel 1997, dopo aver frequentato il corso di regia teatrale. Nel 2006 ha conseguito anche il suo dottorato; la versione del libro della sua tesi è stata pubblicata nel 2008 con il titolo Opera - A Closed World. Professore associato presso l'Accademia di musica Ferenc Liszt di Budapest, è direttore del programma operistico dal 2009. Ha insegnato presso l'Università di Teatro e Arti cinematografiche di Budapest, l'Università Gáspár Károli della Chiesa riformata, l'Università ungherese di Belle Arti, Budapest Metropolitan University, Hochschule für Musik und Darstellende Kunst Frankfurt am Main, Universität der Künste di Berlino, e al Conservatorio di Musica di Firenze Luigi Cherubini. Ha lavorato come consulente artistico per l'Armel Opera Festival dal 2016. Come regista di drammi teatrali, ha messo in scena i suoi adattamenti e numerose anteprime mondiali di opere contemporanee al Budapest Chamber Theatre. Ha lavorato anche come drammaturgo e regista al Teatro Operetta di Budapest, in vari teatri a Kaposvár, Sopron, Szeged, Debrecen, Eger, Kaposvár e nella città tedesca di Ludwigshafen, nonché con la Szeged Contemporary Dance Company. Dal 2010, ha focalizzato le sue attività sul genere dell'opera, e le sue produzioni d'opera sono state presentate all'Opera di Stato Ungherese, al Teatro Erkel, all'Accademia di musica Ferenc Liszt, all'Opera di Breslavia e al Budapest Music Center. Nel 2006 ha preso parte all'István Örkény Drama-Writing Scholarship, che ha portato alla pubblicazione di due drammi. Tra le sue altre distinzioni, nel 2017 è stato insignito della Croce di cavaliere dell'Ordine al merito ungherese (divisione civile). Dal luglio 2018 è stato nominato direttore artistico dell'Opera di Stato ungherese.


BALÁZS KOCSÁR - Direzione

Balázs Kocsár è nato a Budapest nel 1963. Ha studiato composizione al Conservatorio Béla Bartók di Budapest, direzione di coro all’Accademia Franz Liszt, dove nel 1991 ha conseguito il diploma di direzione d’orchestra come allievo del Prof. Ervin Lukács. Ha preso parte a Corsi di perfezionamento sotto la guida di Helmuth Rilling, Péter Eötvös e Jorma Panula. Ha terminato gli studi presso l’Accademia di Musica di Vienna nella classe del Prof. Karl Österreicher. Nel 1989 è stato uno dei vincitori al 6.Concorso Internazionale per Direzione d’orchestra della Televisione Ungherese ed è stato vincitore assoluto del Concorso Ferrara organizzato dal Teatro dell’Opera di Roma nel 1995. 1990-1993: Direttore d’opera presso il Teatro Nazionale di Szeged. 1991-1994: Direttore Assistente dell’Orchestra Nazionale Filarmonica Ungherese. Dal 1992: dirige regolarmente all’Opera di Budapest. 1993-1999: Direttore Musicale del Teatro Csokonai di Debrecen. 1999-2002: Primo Direttore Stabile del Teatro di Frankfurt am Main. Dal 2005: Direttore Artistico dell’Orchestra Filarmonica, del Coro Kodály e del Teatro Csokonai di Debrecen. Dal 2011: Direttore Musicale del Festival di Primavera di Budapest. In Italia ha diretto presso numerosi teatri ed orchestra sinfoniche quali Orchestra del Maggio Musicale, Orchestra Verdi di Milano, I Pomeriggi Musicali di Milano, Orchestra Sinfonica Siciliana di Palermo, Teatro dell’Opera di Roma, Arena di Verona, Teatro Verdi di Trieste. Dirige regolarmente anche in Belgio, Germania, Olanda, Svizzera ed Ungheria.  Nel campo dell’opera lirica segnaliamo alcuni degli ultimi impegni: Dal 2005, quando si è esibito per la prima volta a Lipsia in Germania con il "Flauto magico” di Mozart, è stato richiamato più volte per diverse produzioni. Nel 2006-2007 ha diretto nuove allestimenti: "The turn of the screw” di Britten, "L’Elisir d’amore” di Donizetti. A Debrecen ha diretto "Idomeneo” di Mozart e "Attila” di Verdi. Nella stagione 2006-2007 ha debuttato con grande successo al Mozartfest organizzato dall’Opera di Amburgo, dirigendo "La Clemenza di Tito” e ha riscosso un grande successo personale a Basilea con la presentazione del "Don Carlos” di Verdi nella versione originale francese. A Mannheim ha poi diretto la ripresa de "La Traviata” di Verdi e a Debrecen la "Tosca” di Puccini e "La Forza del destino” di Verdi. Nella stagione 2007-2008 ha diretto presso l’Opera di Colonia la "Cavalleria Rusticana” ed i "Pagliacci” con José Cura come protagonista, ad Amburgo il "Flauto magico” e a Debrecen la "Manon” di Puccini e la "Lucia di Lammermoor” di Donizetti. Nel giugno del 2008 a Liegi ha diretto la nuova produzione del "Don Carlo”. Nella stagione 2008-2009 ad Amburgo ha diretto „Cosí fan tutte” di Mozart e „Madama Butterfly” di Puccini, a Debrecen "Bánk Bán” di Ferenc Erkel (opera nazionale ungherese), "Rusalka” di Dvorak , "Turandot” di Puccini e "Aida” di Verdi. Nella stagione 2009- 2010 ha diretto "Macbeth” di Verdi a Sassari, "Rigoletto” ad Amburgo, prima assoluta di "L’Ultimo giorno di un condannato” di Davide Alagna, "Aida” di Verdi, "Oidipus Rex” di Stravinsky e "Boris Godunov” di Mussorgsky a Debrecen. Nella stagione 2010-2011 ha diretto "Norma” di Bellini, "Don Pasquale” di Donizetti con Juan Pons e "Rigoletto” di Verdi a Budapest, "La Fanciulla del West” di Puccini nella stagione lirica di Lecce ed a Debrecen "Hunyadi László” di Erkel, "L’Ange de Feu” di Prokofiev, "Carmen” di Bizet e a fine stagione, "Háry János” di Kodály. Nell estate 2011 é stato invitato insieme al Teatro dell’Opera di Budapest a partecipare al Festival di Savonlinna con "Il Castello di Barbablú” di Bartók e il "Don Carlo” di Verdi. Attualmente ricopre il ruolo di direttore musicale del Teatro dell’Opera di Budapest.


HUNGARIAN STATE OPERA ORCHESTRA 

È la più antica orchestra teatrale in attività dell’Ungheria. Grazie alla vasta gamma di spettacoli offerti dall'Opera di Budapest, è l'orchestra sinfonica ungherese più impiegata. Le sue radici risalgono al 1838, quando Ferenc Erkel organizzò un'orchestra operistica per il Teatro ungherese di Pest (in seguito: Teatro Nazionale). Nel 1853, anche sotto la guida di Erkel, i musicisti iniziarono a organizzare i loro concerti indipendenti sotto il nome di Budapest Philharmonic Orchestra formando così la prima orchestra da concerto dell'Ungheria. La National Theatre Orchestra si trasferì nella loro casa attuale, l'Opera House dopo l'inaugurazione nel 1884 ed è stata presieduta da famosi direttori musicali come Ferenc Erkel, Sándor Erkel, Gustav Mahler, István Kerner, János Ferencsik, Ádám Medveczky o János Kovács. L'elenco di altri grandi direttori d'orchestra che hanno avuto un impatto sull'orchestra includono Egisto Tango, Sergio Failoni, Otto Klemperer, Ervin Lukács, Miklós Erdélyi, Géza Oberfrank, György Győriványi Ráth e Ádám Fischer. Da marzo 2016, l'orchestra è stata diretta da Balázs Kocsár. Gran parte delle opere teatrali di Bartók e tutte quelle di Kodály hanno debuttato al Teatro dell'Opera, oltre ad opere di altri importanti compositori come Hubay, Dohnányi, Ránki, Szokolay e János Vajda che hanno debuttato con l'Opera Orchestra. E’ stata diretta dai famosi compositori ungheresi Kodály, Dohnányi, Petrovics e Péter Eötvös, nonché da compositori d'opera internazionali come Mascagni, Respighi e Strauss. Oltre alle eccellenti generazioni di cantanti lirici ungheresi, l'orchestra ha accompagnato le più grandi star. Mario del Monaco, Nicolai Gedda, Luciano Pavarotti, Montserrat Caballé, José Carreras, Cecilia Bartoli, Erwin Schrott, Jonas Kaufmann, Plácido Domingo, Bryn Terfel e René Pape sono solo alcuni da menzionare. Sarebbe quasi impossibile elencare tutti gli artisti che si sono esibiti nel corso dei concerti al fianco dell'orchestra con la storia più lunga in Ungheria.


CSABA SEBESTYÉN - Coreografo

Si è diplomata all'Istituto statale di balletto ungherese nel 1980, dopo aver studiato con József Forgách. Nel 2000 ha conseguito la laurea in danza classica e successivamente si è diplomato al corso di coreografia presso l'Università di Teatro e Arti cinematografiche nel 2007. La sua prima posizione è stata presso la Compagnia di danza di Győr, dove ha lavorato come solista, un assistente e un maestro di balletto. Si è esibito sui palcoscenici degli Stati Uniti, India, Giappone, Cina, Germania, Grecia, Turchia, Italia, Francia, Danimarca, Paesi Bassi, Inghilterra, Israele, Austria, Corea del Sud, Finlandia, Russia, Polonia e Cecoslovacchia. Nel 1991, divenne vice capo del corpo di ballo al Teatro Madách. Questo lavoro è stato seguito da una serie di incarichi: prima come maestro di ballo per il corpo di ballo al Budapest Chamber Theatre e al Central European Dance Theatre, poi come maestro di danza al Teatro dell'Opera di Budapest e come coreografo al National Theatre. Ha iniziato a insegnare danza classica presso la Compagnia di danza della scuola d'arte di Győr nel 1984. Nel 1993, ha iniziato ad insegnare presso l'Università di Teatro e Arti cinematografiche come parte della loro formazione musicale. Ha insegnato insegnante presso l'Accademia di danza ungherese nel 1994, prima come insegnante d'arte, poi come assistente docente, e in seguito come docente senior. È professore associato dal 2003. Collabora regolarmente con studenti sia ungheresi che internazionali e si occupa anche dello sviluppo professionale di istruttori più giovani. È membro del consiglio di amministrazione dell'Associazione ungherese dei gruppi di danza moderna e dell'Associazione degli spettacoli di danza ungherese, dove è impegnato nella formazione di istruttori di danza e allenatori, oltre che come giudice e presidente di giuria alle competizioni. Tiene corsi professionali per gli artisti di Ballet Pécs e il dipartimento di danza del Teatro Nazionale di Miskolc. Il suo lavoro è stato premiato con numerosi riconoscimenti: nel 2003 è stato decorato con la Croce d'argento al merito della Repubblica di Ungheria, e ha anche ricevuto il Gyula Harangozó Award nel 2006. Nel corso del suo lavoro come coreografo, ha lavorato insieme a László Vámos, István Iglódi, János Ács, Attila Vidnyánszky, Miklós Szinetár, Viktor Nagy e numerosi altri registi. Collaborando con loro, ha creato le coreografie di numerosi brani musicali e musicali sia a Budapest che in molte città del paese. Dal 2007 è il coreografo del programma di Capodanno "Music Without Borders" trasmesso in diretta su M1 e Duna Television.




Personaggi e interpreti

FANTASIO
Il Re Géza Gábor
Il Principe Zoltán Megyesi
Marioni Marcell Bakonyi
Elisabetta Zsófia Nagy
Confidant Mária Farkasréti
Fantasio Gabriella Balga
Spark Zsolt Haja
Hartman Botond Ódor

FORTUNIO
Andrea Géza Gábor
Giacometta Zsófia Nagy
Clavaroche Zsolt Haja
Maddalena Mária Farkasréti
Fortunio Gabriella Balga
Guglielmo Botond Ódor
Landry Marcell Bakonyi
Pietro Zoltán Megyesi




BOTOND ÓDOR
Giovane tenore ungherese nato da una famiglia di artisti, fu circondato da arte e cultura fin dall'infanzia. Sua madre insegna musica, suo padre è coinvolto nella fotografia. Ha iniziato a studiare chitarra classica, ma poi ha deciso di studiare canto, che ha completato con successo nel 2017 alla Franz Liszt Music Academy. Ha vinto l'ottavo József Simándy International Singing Competition e si è esibito con vari direttori e orchestre ungheresi e internazionali. Il repertorio si estende dalla musica classica viennese (Mozart) alla musica moderna (Henze, Rufus Wainwright). Botond Odor fa il suo debutto al Theater an der Wien.

MARCELL BAKONYI
E’ nato nel 1980 a Győr, dove ha iniziato i suoi studi di canto con Ferenc Pintér. Ha continuato la sua formazione musicale con Margit Ercse al Conservatorio Leó Weiner prima di trasferirsi a Stoccarda nel 2002 per studiare con Júlia Hamari alla Musikhochschule, diplomandosi con lode nel 2007. Ha ottenuto grandi consensi con il suo ritratto nel 2007 di Lord Sidney in Il viaggio di Rossini a Reims al Festival Rossini di Pesaro, con la direzione di Alberto Zedda. Dopo aver completato gli studi, si è trovato per la prima volta al teatro di Heidelberg e l'anno successivo ha firmato con l'Opera Studio di Zurigo. Ha avuto l'opportunità di lavorare con famosi direttori come Nello Santi, Carlo Rizzi e Ingo Metzmacher. La svolta della sua carriera avviene nella primavera del 2009 al Festival di Schwetzingen, dove la sua interpretazione del ruolo di Varo nella produzione di Ezele di Handel di Günther Krämer ha riscosso un enorme successo. Tra il 2009 e il 2013 è stato membro del Landestheater di Salisburgo. Ha fatto il suo debutto all'Opera di Stato ungherese nel 2011 nel ruolo di King Endre II a Bánk bán. L'anno seguente lo vide salire sul palco per la prima volta all'Opera House di Oslo, così come in Colorado, in un festival musicale. A questi ha fatto seguito il ruolo di Kaspar in una produzione di Der Freischütz al Theater Giessen e altre presenze a Budapest. Nel 2013, ha avuto un grande successo cantando Leporello al fianco di Ildebrando D'Arcangelo a Oslo. È stato membro dello Staatstheater Nürnberg durante la stagione 2016/17. L'estate precedente, ha registrato un CD sull'etichetta Naxos di Sigismondo di Rossini, cantando i ruoli di Zenovito e Ulderico, al Wildbad Rossini Festival. Il pubblico ungherese ha avuto un'altra possibilità di ascoltarlo come Endre II a Bánk bán nel settembre 2017 e come Figaro nella produzione di András Hábetler Figaro 2.0 più tardi nella stessa stagione.


ZSÓFIA NAGY
A 11 anni era studentessa nel corso di canto alla scuola elementare di Erfurt di Ferenc quando ha iniziato a cantare nel coro di bambini dell'opera statale ungherese, acquisendo familiarità con il genere fin dalla tenera età. Fu allora che iniziò la sua passione per l'opera, e il punto in cui intraprese la carriera musicale, studiando presso le scuole superiori di Budapest e Vác e presso il Béla Bartók Music Institute presso l'Università di Miskolc prima di conseguire il master in voce operistica. e pedagogia vocale alla Ferenc Liszt Academy of Music nel 2017, sotto la guida di Júlia Pászthy. Ha collaborato con numerosi artisti eccellenti, tra cui András Almási-Tóth, László Bartal, Gábor Bretz, Dominic Wheeler, Zsuzsanna Giczy, Gyöngyvér Gupcsó, András Hábetler, Katalin Hegedűs Gönczy, Lilian Jászberényi, János Kovács, László Kovács, Ádám Medveczky, Péter Novák , Máté Szabó, Kálmán Szennai, Miklós Szinetár e Gergely Vajda. È apparsa in numerose produzioni alla Liszt Academy, incluso nel ruolo del protagonista di Sándor Szokolay The Girl Who Brings Spring nel 2006, come First Lady in Die Zauberflöte nel 2015, Helena in A Midsummer Night's Dream di Benjamin Britten nel 2016, e tre ritratti nel 2017: Malwina in Der Vampyr di Heinrich Marschner, Wendla in Spring Awakening di Máté Bella e Brenda Hendrix in Gregory Vajda e Georgia Bottoms di Mark Childress. Ha fatto il suo debutto all'Hungarian State Opera House nel 2011, come Pastorello in Tosca.

GABRIELLA BALGA
Ha frequentato per la prima volta la scuola di musica a Nagykürtös (Veľký Krtíš) e in seguito a Ipolyság (Šahy), cominciando come soprano all'età di 7 anni, prima di passare al flauto dolce, che a 12 anni ha continuato a studiare seguendo il classico programma di voce solista. La sua prima insegnante di canto è stata Angéla Michňa. Da bambina partecipava spesso a gare di canto popolare ottenendo risultati eccezionali. Dopo aver studiato alla scuola superiore cattolica Fegyverneki Ferenc di Ipolyság, ha frequentato il programma vocale solista al Liceo musicale di Pikéthy Tibor a Vác sotto la tutela di Ilona Bakonyi. Nel 2005 si è iscritta alla scuola di musica Béla Bartók di Budapest, dove la sua insegnante di canto era Mária Fekete. Nel 2008, ha ottenuto l'ammissione al corso di canto classico presso l'Accademia di musica Ference Liszt, dove ha conseguito una laurea (2008-2011) in voce classica e un master (2011-2013) in canto operistico sotto la professoressa Éva Marton, mentre il programma dell'opera era diretto dal regista András Almási-Tóth. Júlia Pásthy è stata la sua insegnante di canto durante gli anni universitari, con i quali continua a lavorare. Tra il 2012 e il 2013 si è laureata in pedagogia vocale operistica sotto la guida di Katalin Halmai. Ha partecipato a corsi di perfezionamento tenuti da Walter Moore, Nicholas Clapton, Evgenij Nesterenko, Gwynne Geyer, Béla Perencz e Ildikó Komlósi. È stata solista con l'Opera di Stato ungherese dal 2012, facendo il suo debutto nel ruolo di Mátyás Hunyadi nell'opera di Ferenc Erkel Hunyadi László, con anche una registrazione di CD della sua versione originale. Oltre a interpretare personaggi minori, canta anche ruoli principali come Rosina (nel Il barbiere di Siviglia, incluso nel tour del 2015 dell'Opera in Giappone) e Dorabella (in Così fan tutte). Fa regolarmente le apparizioni degli ospiti sia all'estero che nei teatri delle città ungheresi al di fuori di Budapest. Ha collaborato con illustri cantanti come Andrea Rost, Eszter Sümegi ed Erika Miklósa, e ha anche avuto l'opportunità di lavorare con direttori come Zoltán Kocsis, Tamás Vásáry, Gábor Takács Nagy, Bertrand de Billy, Pinchas Steinberg, Stefan Soltész, Douglas Boyd , Péter Halász, Gergely Kesselyák e János Kovács. Oltre al suo repertorio operistico, canta prontamente oratori e recital. È la vincitrice di numerosi concorsi internazionali di canto e di numerose borse di studio e premi. Nel 2010, ha ricevuto l'Ari Kupsus Stipendium, un premio per studenti di talento presso l'Accademia Liszt. Nel 2011, ha ottenuto il secondo posto al József Simándy International Singing Competition e il primo posto al Concorso Internazionale di Canto Iuventus Canti, oltre a vincere il premio come miglior interprete. Nel 2012 ha vinto il Gundel Award e il premio "Dream" di Ari Kupsus per l'eccezionale successo ottenuto da una giovane cantante di talento che studia all'accademia musicale. Sempre nel 2012, ha ricevuto il premio stabilito dai coniugi Andor Mándy, che riconosce il successo eccezionale da parte dei giovani cantanti che lavorano all'Opera. Nel 2013, la Wagner Society ha donato la sua borsa di studio a Bayreuth, e nel 2015 ha ottenuto il primo posto al Concorso internazionale di canto Jakub Pustina.


MÁRIA FARKASRÉTI
E’ nata a Veszprém e ha iniziato i suoi studi musicali alla scuola di musica Csermák Antal come studentessa di Károly Ötvös. Nel 1986, ha ottenuto l'ammissione al Conservatorio di musica di Béla Bartók, dove Zsuzsa Németh è stata la sua insegnante nel suo settore di specializzazione. Più tardi, avrebbe continuato i suoi studi musicali privatamente. I suoi insegnanti più importanti furono Margit Kaposy e László Kéringer. Tra il 1988 e il 1996, ha cantato nel coro al Teatro Erkel della Staatsoper di Budapest, anche come semidirista dopo il 1990. Nel 1992, dopo aver vinto la borsa di studio del Teatro Csokonai di Debrecen, ha fatto il suo debutto nel ruolo del titolo di Tosca. Nel 1996, Tamás Pál l'ha firmata come solista con la compagnia teatrale del Teatro Nazionale di Szeged. Ha debuttato a Budapest nel ruolo di Senta nel 1999 e ha fatto regolarmente le sue apparizioni in Olanda, Francia, Spagna, Portogallo, Germania e Austria. La malattia ha poi interrotto la sua carriera per diversi anni, ma dopo il recupero è tornata sul palcoscenico nel 2005 nel ruolo di Donna Elvira. Dal suo ritorno, ha lavorato come solista freelance. I suoi ruoli principali comprendono la Contessa (Le nozze di Figaro), Donna Elvira (Don Giovanni), Despina (Così fan tutte), First Lady e Second Lady (Die Zauberflöte), Leonora (Il trovatore), Abigaille (Nabucco), Amelia (Un ballo in maschera), i ruoli principali di Tosca, Turandot e Manon Lescaut, così come Santuzza (Cavalleria rusticana) e Senta (Der fliegende Holländer). Negli ultimi anni all'Opera House, ha debuttato i ruoli di Jenny nel Der Tenor di Dohnányi, collaborando anche alla registrazione di quell'opera, l'imperatrice nel canto di Kodály Háry János, la signora Angiolieri nell'opera di János Vajda Mario e il mago, la Contessa di Coigny in Andrea Chénier e La Ciesca e suor Zelatrice ne Il trittico di Puccini. Nel suo repertorio sono inclusi anche i soprano solisti nei requiem di Mozart, Verdi e Dvořák requiem e le parti dell'oratorio soprano nella Passione di San Giovanni di Giovanni e nel Messia di Handel, così come i cicli di lieder come Wesendonck Lieder di Wagner.


ZSOLT HAJA 
E’ nato a Debrecen nel 1983. Dopo essersi diplomato alla Kodály Zoltán Secondary School of Music (solfeggio e teoria musicale, musica sacra) nel 2002, ha iniziato i suoi studi nel conservatorio dell'Università di Debrecen. Ha imparato a cantare fin dall'età di diciotto anni con il dott. Éva Mohos Nagy. Ha vinto il József Simándy Memorial Singing Competition a Szeged nel 2006, il Concorso Internazionale di Canto Ferruccio Tagliavini nel 2007, e ha ricevuto un premio speciale al Concorso Cantante Belvedere Hans Gabor a Vienna un anno dopo. Ha debuttato nel ruolo di Melitone ne La forza del destino nel Teatro Csokonai, Debrecen nel 2005. Nella stagione successiva nei panni del sergente Lescaut in Manon Lescaut e Enrico in Lucia di Lammermoor. Il suo primo ruolo nell'Opera di Stato Ungherese è stato Garda Roberto in The King's New Clothes. Ruoli: Escamillo (CarmenCET), Creonte (Haydn: L'anima del filosofo), Guglielmo (Così fan tutte), Papageno (Die Zauberflöte), Figaro (Il barbiero di Seviglia).


GÉZA GÁBOR 
E’ nato a Székesfehérvár nel 1972. Dopo aver iniziato a studiare pianoforte, ha ottenuto l'ammissione al corso di canto solista presso l'Accademia di musica Ferenc Liszt nel 1991, dove si è laureato con la lode nel 1996 dopo aver studiato sotto la guida diei maestri Zsolt Bende e Dénes Gulyás. Ha continuato i suoi studi nel dipartimento dell'opera, conseguendo la laurea nel 1998 sotto la guida di Ádám Medveczky e Balázs Kovalik.  Dopo il diploma, ha lavorato in numerosi ruoli minori all'Opera di Stato ungherese. Nel 1999, ha firmato con il National Theatre di Szeged, dove ha trascorso dieci anni estremamente produttivi. Nel 2009, è tornato all'Opera House nel ruolo di Baron Ochs (nel Der Rosenkavalier di Strauss).  Con un repertorio abbastanza ampio che spazia dal barocco ai compositori contemporanei e dalll’opera seria alla buffa, è apparso in numerosi festival sia in Ungheria che all'estero. Nel 2007 ha ricevuto grandi consensi per la sua interpretazione di Fasolt ai Wagner Days al Budapest Opera Festival di Müpa Budapest. Gli piace anche cantare nei musical, inclusi i ruoli di Caifa (in Jesus Christ Superstar) e Molokov (Chess). Oltre ai suoi lavori drammatici, il suo repertorio di oratori è piuttosto ampio e ha cantato la maggior parte delle opere che vengono eseguite più frequentemente in Ungheria. Durante i suoi anni di Szeged, ha ricevuto due volte il Dömötör Award e il premio degli Amici dell'Opera. Nel 1997, l'Associazione dei compositori ungheresi gli ha conferito l'Artisjus Award per la divulgazione della musica contemporanea. Tra i suoi ruoli principali ricordiamo Bluebeard (Castello di Barbablù), Osmin (Die Entführung aus dem Serail), Bartolo e Basilio (Il barbiere di Siviglia), Leporello e il Commendatore (Don Giovanni), l'Inquisitore (Don Carlos), Procida (I vespri siciliani ), Sparafucile (Rigoletto), Colline (La bohème), Angelotti (Tosca), Pistola (Falstaff) Rocco (Fidelio), Timur (Turandot), Fasolt e Fafner (Das Rheingold), Hunding (Die Walküre), Stefano (Adès: The Tempest), King Baldemar (Tallér: Leander and Linseed).


ZOLTÁN MEGYESI 
E’ nato nel 1975 a Szeged, dove ha anche seguito la sua formazione vocale. La sua prima insegnante di canto è stata Valéria Berdál. Il suo repertorio di concerti comprende oratori, messe, passioni e cantate di Monteverdi, Schütz, Bach, Händel, Haydn, Mozart e Rossini. Fuori dall'Ungheria, si è esibito in numerosi paesi europei, oltre che negli Stati Uniti, in Giappone e nella Corea del Sud. Tra le sue apparizioni concertistiche da anni recenti ricordiamo Il combattimento di Tancredi e Clorinda di Monteverdi, Salve Regina di Haydn diretta da Adam Fischer, nonché una performance in versione concertistica dell'opera di Mozart Ascanio ad Alba nella Danish Radio Concert Hall, diretta anche da Fischer, così come il Messia di Händel, il Magnificat di Bach e le cantate di Natale ai concerti diretti da Helmuth Rilling. Ha anche cantato sotto la direzione di Iván Fischer in sale come la Filarmonica di Colonia, Concertgebouw Brugge e la Wiener Konzerthaus. È solista permanente alla Settimana di Bach di Budapest. Insieme al pianista Balázs Fülei, ha cantato la maggior parte dei cicli di lieder più importanti scritti per la voce tenore nella letteratura musicale (Winterreise, Die Schöne Müllerin, Cicli di lieder di Britten, ecc.). Ha vinto premi al Concorso di canto Mária Gyurkovics del 2003, al concorso di canto 2007 organizzato intorno ai ruoli nell'Orfeo di Monteverdi a Verona, e al festival internazionale di musica sacra tenuto a Roma nel 2011. È stato premiato con il József Simándy Award nel 2009. Membro dell'Opera Studio dell'Opera di Stato Ungherese dal 2005 fino al 2007, ha conquistato l'attenzione dei critici alla Maratona di Mozart che faceva parte del Festival di Primavera di Budapest del 2006, dove ha cantato il ruolo di Ferrando in Così fan tutte. Oltre a cantare numerosi ruoli secondari all'Opera di Stato Ungherese, ha anche interpretato ruoli principali come Ferrando (Così fan tutte), Don Ramiro (La Cenerentola), Conte Almaviva (Il barbiere di Seviglia), Orfeo (Haydn's L'anima del filosofo, Orfeo ed Euridice), Pylades (Gluck's Iphigénie en Tauride), e ha anche ottenuto grandi consensi come Don Ottavio in una produzione di Don Giovanni diretta da Iván Fischer a Budapest e New York.



NOTA SULLA POETICA DI DE MUSSET
Alfred de Musset (Parigi, 1810-1857) è figura difficilmente collocabile nel panorama del suo tempo: romantico "disimpegnato", autore delle opere teatrali più vitali, fu poeta lirico intenso che fece poesia della sua stessa vita. Temperamento brillante, ironico e sentimentale, le sue opere poetiche rendono come poche il fremito della passione d'amore e il suo teatro resta inimitabile esempio di una grazia fiabesca, che fonde il pianto e il sorriso nella sua incantevole armonia. Nonostante le sue prese di posizione, Musset appartiene pienamente all'epoca romantica per la qualità della sua poesia, che è prevalentemente lirica, è effusione personale, sfogo sentimentale. Tutte le sue opere tendono alla confessione, costituendone insieme l'aspetto più originale e forse il limite più vistoso. Dietro la maschera della derisione e dell'ironia ritornano insistenti l'aspirazione all'amore, l'ossessione del tradimento, il richiamo del piacere, l'angoscia di annientamento e autodistruzione. Incontrollata, eccessiva, ingenua nella sua pretesa sincerità, l'effusione trabocca nel sentimentalismo, la sincerità diventa trascuratezza. Dopo gli studi secondari tentò le facoltà di legge e di medicina, abbandonandole presto per la pittura, la musica e la poesia. Colto e brillante ma incostante e debole, a soli diciassette anni fu introdotto nel salotto di Victor Hugo, cenacolo della nuova scuola romantica francese. Il suo approccio alla poesia fu segnato dal gusto dell'esibizione, dal successo salottiero, dalla grazia elegante e un po' superficiale della vita mondana. La prima raccolta di versi si collocava nel solco del romanticismo di Hugo e di Byron, ma già rivelava un'adesione esteriore e ambigua ai moduli della scuola; infatti poco dopo proclamava nelle nuove raccolte la sua indipendenza da ogni scuola letteraria ed esprimeva un atteggiamento scettico e pessimista anche sul piano politico e morale. Musset insomma affermò il suo disimpegno e il rifiuto del suo tempo proprio nel momento in cui la letteratura partecipava vivamente alla realtà sociale e politica dell'epoca. Il solenne fiasco della sua prima opera teatrale, (la commedia La notte veneziana, 1830), contribuì a far di lui un isolato. Deciso a vivere del lavoro di scrittore, disgustato dalla reazione del pubblico, scelse di scrivere opere teatrali destinate alla lettura. Nel luglio 1833 iniziò la tempestosa relazione con George Sand, che si concluse, dopo tre anni di passione e litigi, con la dolorosa esperienza del tradimento e dell'abbandono. La delusione e successive relazioni amorose ispirarono la produzione di quegli anni tra le quali appunto anche Fantasio (1834) e Il candeliere (1835) che in questa trasposizione musicale diventa Fortunio, protagonista principale. Da notare la bella trasposizione musicale di Fantasio da parte di Offenbach pur nella vistosa trasformazione librettistica e le musiche di scena per Le chandelier, la trasposizione musicale di Fortunio a fine ‘800 da parte del compositore francese André Messager.



NOTE DI REGIA
Le due opere parlano dei comportamenti umani e della loro difficoltà a connettersi con altre persone in modo semplice, trovando sempre trucchi, stati d’animo artificiali, recitando…per poter entrare in contatto con gli altri.  Musset racconta una diversa storia in ciascun atto e di come l’uomo trova una soluzione a tutto questo.  Entrambe le storie parlano di amore e di un ragazzo timido che non trova il modo di amare ciò che ha scelto.
La scenografia è semplice, la medesima per entrambe le opere, minimalista e simbolica. Vediamo una pedana con una cornice, questo è il luogo in cui ciascun artista può o recitare le parti scelte. 
La semplicità scenica lascia spazio alla musica del Maestro Testoni e ai suoi colori vivaci. 
Il pubblico può sognare molto: le storie lasciano spazio al potere dell’immaginazione. 
Lo stile della recitazione è il “realismo magico”, i movimenti coreografici aiutano a comprendere la poesia delle opere.




FANTASIO e FORTUNIO di Paolo IsottaUn grande compositore del Novecento, Gino Marinuzzi, diresse a ventun anni (1903) la prima delle sue Opere, la raffinatissima Barberina, tratta da una commedia di Alfred de Musset. Non è stata più eseguita: noi italiani non dedichiamo alcun culto alle nostre glorie, e i popoli senza memoria non hanno futuro né sono atti alla libertà. Jacques Offenbach, a Secondo Impero già morto, quindi senza la humus politica che l’aveva sostenuto, scrisse una deliziosa Operetta, Fantasio, da un’altra commedia fantastica di questo Poeta di un romanticismo umbratile e delicato, al quale paragonerei, in Francia, il solo Gérard de Nerval. Offenbach è un genio del comico e della melancolia; Rossini, sempre infallibile nel giudizio, lo definì “le petit Mozart des Champs Elisées.” Sarei enfatico se chiamassi Giampaolo Testoni un genio del comico e della melancolia; in cuor mio lo credo; e col suo dittico tratto da Musset, Fantasioe Fortunio, lo ostende mirabilmente. Le due qualità, proprio come in Offenbach, e prima di lui in Rossini – pensiamo alla Cenerentola! – si congiungono con una sensibilità che gli è propria e ch’è, ai giorni nostri, rarissima. Ancora la Cenerentola influisce su Musset: della trama fa parte che un principe regnante, fidanzato a una figlia di re, assume le sembianze del suo attendente per poterla indagare, e corteggiare, senza dover contare su di un consenso scaturiente dal rango. Ma se nel meraviglioso poema teatrale di Jacopo Ferretti ciò mette capo al trionfo dell’amore, qui conduce a delusione e sconfitta: la principessa disprezzerà falso e vero principe. Farà parlare solo il cuore, e amerà chi l’ama senza condizioni. Il rapporto di Musset con la Cenerentola viene, peraltro, fatto oggetto d’una sottile allusione in Fantasiodi Testoni: un duetto fra principe e attendente ricorre a “staccato” orchestrali, a un “parlato” e a “ribattuto” d’un conio prettamente rossiniano. Aggiungo che il Fantasio immaginato dal romantico francese precorre il carattere dell’Hoffmann, non storico, ossia il poeta e compositore e novelliere, maquello creato proprio da Offenbach nel suo capolavoro postumo; né Musset avrebbe potuto credere che una sua idea sarebbe stata raccolta nel 1907 dal poeta tedesco Ernst Hardt nel dramma Tantris der Narr, dal quale un sommo compositore, Karol Szymanowski, trae due delle tre Fantasie pianistiche denominate Maschere. Fantasio si traveste da buffone di corte, o meglio, prende il posto del defunto gobbo: ricorre a tale espediente per esser vicino alla principessa che ama: in Hardt e Szymanowski è il Tristano della leggenda bretone, dunque anteriore a quello di Wagner e volutamente a lui estraneo, che si traveste da folle (Narr) –il “berretto a sonagli” è la divisa ufficiale del pazzo e del buffone - , per accostarsi all’inaccessibile Isolda; ma i cani lo riconoscono e viene scacciato.
Fantasio e Fortunio, atti unici di Testoni, ora vanno alla prova del palcoscenico: il Libretto è ricavato da Musset dallo stesso compositore. Sono concepiti in dittico, e vorrei venissero sempre eseguiti così, come a Novara e, l’anno venturo, a Budapest. Se si ascoltano insieme sono complementari, e l’uno aiuta a scoprire il valore dell’altro. Li unisce la stessa fonte poetica, li unisce lo stile del musicista. Ma sono straordinariamente diversi. Fantasio è percorso da un ethos onirico e melancolico. Una principessa triste, la protagonista, è un’anima così eletta che il suo primo sentimento, quando appare in scena, non è il fasto, né la gioia per imminenti nozze regali, bensì il dolore per la morte del suo povero buffone. Fantasio è un simbolo stesso dell’artista: uomo libero, cultore dell’amicizia, romanticamente bacchico, incurante del denaro, sognatore assoluto. Diviene buffone di corte, come ho detto, per esser accanto alla principessa da lui amata. Ma anche perché il folle – pensiamo ai buffoni di Shakespeare, pensiamo al Ciampa di Pirandello – è anche, per il fatto di esser fuor dai confini dell’umano consorzio, il solo uomo veramente libero, capace di essere fino in fondo se stesso. “Sferrare”, grida Ciampa nel finale del Berretto a sonagli, “per davvero tutta la corda pazza, cacciarmi fino agli orecchi il berretto a sonagli della pazzia e scendere in piazza a sputare in faccia alla gente la verità.” Fantasio, meno loico di Ciampa, meno cruento di Rigoletto, non crede che il suo amore per la principessa possa realizzarsi; diviene buffone per atto gratuito; indirettamente, per forzare gli eventi e quindi consentire alla fanciulla di non approdare a nozze richieste da ragion di Stato e per lei generatrici d’infelicità; che la principessa s’innamori di lui è conseguenza non sperata. Ma questo avviene; e se si paragona la commedia di Musset all’Opera di Testoni – non al suo Libretto, dico, al risultato prodotto dalla parola siccome trasfigurata dalla musica - vediamo che assai più nettamente ciò si percepisce nell’Opera. Musset chiude la commedia con una possibilità; il rapinoso duetto d’amore concepito dal Maestro italiano a chiuder la composizione rende atto tale possibilità. Anche Fortunio è pervaso di melancolia; ma lo sfondo è comico. È comico perché il cornuto, magister Andrea, è un tipo il quale, nel teatro e nell’Opera, è quasi sempre oggetto di scherno: un’eccezione è il Silva dell’Ernani di Verdi. Cornuto; e notaio. Qui ci sarebbe da fare una digressione sul notaio nell’Opera, da quelli ridicoli dell’Opera napoletana, di Così fan tutte, del Don Pasquale, a quelli dipinti con sottile ironia dal Cavaliere della rosa e dal Gianni Schicchi. Comico è mastro Andrea, con la sua preoccupazione di esser cornuto subito fugata dai farseschi espedienti della moglie e dell’amante, il vanesio ed egoista ufficiale Clavaroche. Questa moglie simpaticamente libidinosa di Musset precorre la Conception di uno degli stessi capolavori del teatro comico-grottesco, a non dire del teatro musicale assolutamente, L’heure espagnole di Ravel; e l’ufficiale, nascosto in uno stretto armadio fin quasi a soffocare, diverrà un grasso pretendente della donna celato nella cassa di un orologio a pendolo. La melancolia si coglie, invece, nella figura di Fortunio. Questi è un ragazzo innamorato della donna, impiegato presso lo studio di mastro Andrea: ma innamorato con una sua così adolescenziale purezza da non osar nemmeno immaginare che il suo sentimento possa alla donna esser palesato. Viene infatti scelto quale reggimoccolo – il titolo francese è Le chandelier - , ossia quale cicisbeo da esibire al marito e da sacrificare alla sua vendetta in caso di sospetto. Quando Fortunio si rende conto di esser solo uno strumento nelle mani della donna che lo disprezza, il suo dolore e il suo amore, spinto al consapevole sacrificio, riescono al miracolo: Giacometta trascorre dalla libidine al sentimento, comprende che il vero amore può trasformarla da bambola erotica in donna. Come dico, l’ethos musicale è assai dissimile nelle due Opere. Sebbene l’organico ne sia il medesimo, proprio allo scopo di consentirne una rappresentazione congiunta. In comune le due posseggono che il protagonista, Fantasio e Fortunio, sia una voce di mezzosoprano, invece che un tenore. L’omaggio stilistico al Cherubino di Mozart, all’Arsace e all’Isoliero di Rossini, al prediletto Oktavian del Cavaliere della rosa, del Maestro fra tutti più amato da Testoni, Strauss, è palese. Ma nella reviviscenza dell’adolescente voce femminile, ossia “astratta”e antirealistica, occorre vedere anche, e di nuovo, quella scelta di libertà spirituale dei due personaggi, insita in Musset ed esaltata da Testoni: l’innocenza del sentimento di Fortunio, l’innocenza quale follia di Fantasio, è l’aspetto che unisce le due figure. La voce di mezzosoprano, che nasce nel Settecento quale eco dell’eroe per eccellenza, il castrato, più simbolo che uomo, riposa in un suo alto cielo ove la passione del tenore fatta di carne e sangue, oltre che di spirito – Manrico, Alfredo, lo stesso Tristano – non giunge. In comune le due Opere hanno anche l’organico strumentale: un complesso da camera che al pianoforte e le percussioni –i timpani hanno una parte solistica scritta per un virtuoso – aggiunge gli archi a parti reali (se del caso raddoppiabili) e fiati solisti: un flauto, un oboe, un corno inglese, un clarinetto, un fagotto, un corno. Orchestrare per un siffatto piccolo complesso è assai più difficile che per l’orchestra abituale: gli automatismi dei doppi o tripli legni e corni, riempiendo le armonie, aiutano la mano di chiunque. Ma quella di Testoni è magistrale. Nonostante il fortissimo senso drammatico delle due Opere – sono davvero musica teatrale, e l’Autore non a caso invoca per sé il sentimento della “parola scenica”, l’inimitabile espressione coniata da Verdi -, le due partiture si possono godere siccome “musica pura”. Tanto rifinita è la parte di ciascuno di questi solisti: è una vera gioielleria, uno scintillante, elegantissimo Concerto. Sottostante, una concezione contrappuntistica della composizione ch’è di ogni grande Maestro e di ogni vero Maestro del teatro musicale: Mozart, Haydn, Verdi, Wagner, Strauss, Bartók, Respighi, Alfano, Enescu, Berg. Testoni è fra gli orchestratori dotati di più arte del tempo nostro, e non è necessario ricordare la sua strumentazione del Carnaval di Schumann, che dovrebbe entrare nel repertorio delle grandi orchestre, per coglierlo: i due atti unici sono una prova sufficiente. In comune, e soprattutto, le due Opere hanno lo stile dell’Autore. Uno stile inconfondibile; e tanto più inconfondibile quanto più egli orgogliosamente palesa i modelli che ama e ai quali intende render omaggio. Il particolare timbro orchestrale del dittico si annoda, ancor più che al Cavaliere della rosa, all’Arianna a Nasso, a Capriccio, a un capolavoro di Strauss talora sottovalutato: Le bourgeois gentilhomme. E non solo: la stessa attitudine ironica insieme e affettuosa nei confronti dello stile classico, di quello barocco, del rapporto fra sintassi tonale e gesto teatrale, è stato inventato nel Molière di Strauss, superiore a quello dei francesi. Testoni la eredita. Nell’uno e nell’altro degli atti unici abbiamo un “pezzo chiuso” scritto giusta sentimento di rievocazione storica: un Madrigale a due voci in Fantasio, una Romanza in Fortunio. Ambedue fanno percepire, girandovi attorno senza propriamente toccarla, la tonalità di Mi maggiore: ch’è quella della più limpida visione, del sogno etereo: in Bach, in Beethoven. Un altro ovvio modello - ma a me pare più esterno all’animo dell’Autore che non sia Strauss - è quello dello Stravinskij cosiddetto “neoclassico”: di capolavori come Pulcinellae Jeux de cartes.Il ductus, mi ripeto, è inconfondibile. Testoni è un compositore dotato di un cachet tutto suo. Se analizzassimo i due lavori minutamente, si vedrebbe con quanta cura egli reinterpreti e modernizzi il suo impiego della tonalità; ma se ascoltiamo le due Opere nel loro insieme, non c’è equivoco: ne spira un’aura francamente tonale. Ci vuole grande arte a creare in una “maniera” che sembra, e spesso è, usurata dalla storia; assai maggiore di quella con la quale si ricorre a un linguaggio detto di “Avanguardia”, sovente esperanto e passaporto dei mediocri. Lo stile di Testoni è dunque tutt’uno con un’affermazione di libertà dalla moda; e l’affermazione è vincente se non si limita a esser tale, ma se si assevera, come nel nostro caso, col produrre un vero risultato artistico. Non dimentichiamo che, in una delle più grandi Operette morali, Leopardi insegna la Moda essere sorella della Morte, e della Morte stessa più mortifera. Chi ha avuto, come me, il privilegio di leggere in anteprima le due partiture, coglie soprattutto una cosa. Testoni compone con grande gioia: una gioia ch’è al tempo stesso amore per la musica. Questa gioia si trasfonde in chi ascolta, in chi a teatro assiste alle due Opere. Credo sia il massimo premio per un artista.

UN’ALTRA MODERNITÀ. PER UN PROFILO DI GIAMPAOLO TESTONI 
di Marco GattoSi ascolti l’incipit della Terza fantasia sinfonica op. 26 (1995): tre fagotti e un clarinetto basso disegnano una linea sonora ombrosa, presaga di avvenimenti inaspettati; i violoncelli vi rispondono con uno slancio improvviso, prima di ripiegare su un grumo dal timbro oscuro; ancora il clarinetto basso enuncia, quasi in tono sommesso, un interrogativo, raccolto nuovamente dagli archi, che ora contribuiscono ad allestire quelle tensioni che, di lì a poco, esploderanno nel canto disperato, ma vitale, del violino. Non c’è una sola nota che non sia rispettosa della narrazione: Giampaolo Testoni sta rappresentando un mondo, sta dipingendo un tableau vivant nel quale si agitano le più varie corrispondenze tra realtà umana e realtà naturale, in un perpetuo dialogo in cui tutti sembrano prendere la parola. Questa tensione narrativa appare così originale, offerta, cioè, senza artificiose mediazioni, perché fonda se stessa sull’unico veicolo cui un compositore possa affidarsi, se ha a cuore l’edificazione di un mondo sonoro condiviso: la melodia. Il canto è l’espressione diretta di una voce che enuncia la sua presenza: e il groviglio delle voci altro non è che il dialogo ininterrotto fra i diversi attori sulla scena. In questa direzione, Testoni è sì il melodista di una modernità che non è finita, che può ancora darsi nelle forme di un disegno musicale e narrativo completo, ma è anche un contrappuntista, secondo una concezione dell’orizzontalità che va di pari passo a ordinarsi con la verticalità armonica, con una naturalezza che viene dall’affidarsi, quasi per intuizione, alle ragioni del canto. Non poteva però darsi cifra originale in questa sapiente rielaborazione di un nesso principale del moderno – quello tra melodia e armonia – se non avessimo, nel tentativo di afferrare la musica di Testoni, il bisogno urgente di dichiarare che siamo di fronte a uno degli ultimi grandi orchestratori della tradizione occidentale. Sinfonista per elezione, compositore che trascina la complessità dell’orchestra entro la pari multiformità dell’azione scenica in quell’opera-simbolo che è Alice (1993) – forse il solo caso, in Italia, di una sopravvivenza decisiva della lezione straussiana –, musicista che fa del dialogo con il passato uno strumento per superarlo, Testoni possiede un pensiero strumentale aperto e rigoroso: l’orchestra è il suo mezzo privilegiato d’espressione, perché l’orchestra è un tutto nel quale potersi muovere, nel quale trovare un’appartenenza fedele (e felice, vitale) all’intuizione musicale che anima le sue partiture.
Si ascoltino ancora le pagine, solo anagraficamente giovanili, e assolutamente definitive, mature, che designano i suoi primi lavori: le due Sinfonie (1983 e 1990), lo splendido Notturno per violino e orchestra (1983) – qui il “nuovo” irrompe dietro una scrittura che guarda all’ideale congiunzione tra discorso musicale e ricerca espressiva, senza cedere all’esibizione smaccata di inusitate soluzioni timbriche. La modernità inscenata non è quella rumorosa e saccente delle avanguardie, né quella a volte solipsistica dello sperimentalismo linguistico: è la modernità che raccoglie la tradizione mahleriana della sinfonia come grande organismo collettivo, che vede in Strauss l’alfiere di una complessità lirica che è profondissimo studio delle possibilità psicologiche ed espressive, che riconosce in Prokofiev e nelle scelte coloristiche della tradizione russa alleati fedelissimi, che non rinuncia tuttavia a quell’irruzione dell’irregolarità che contrassegna la musica di Stravinskij, forse il compositore più amato da Testoni, forse il suo modello più vivo. Viene allora a manifestarsi una dimensione melodico-ritmica – che trova una sua giustificazione nell’importante, e non certo periferica, produzione di musica per balletto – del tutto personale: la narrazione, sempre tesa a una restituzione emotiva del canto, incrocia la complessità temporale; spazio e tempo concorrono a modificare un immaginario, si plasmano a vicenda, così mostrando la genesi di un linguaggio assolutamente personale. E si viene qui a ciò che rende Testoni davvero una sorta di esule o di sopravvissuto: la cifra stilistica, l’irriducibile unicità della sua soggettività autoriale – qualcosa che il Novecento più agguerrito, in tempi di strutturalismo ideologico, ha contribuito a liquidare, di volta in volta ribadendo, da punti di vista solo apparentemente contraddittori perché complementari, la morte dell’autore o il suo semplice nascondimento in una mentalità compositiva soltanto calcolante.
La vera domanda è come sia potuta dunque darsi un’esperienza come quella di Testoni, in un contesto che a lungo ha visto l’egemonizzarsi incontrastato di un certo modo di concepire la composizione. E l’ulteriore quesito riguarda la solitudine vincente di questo autore e se, in questa strenua difesa della modernità, sia uno dei pochi a pensare l’atto artistico ancora nei termini di autentica narrazione condivisa. Da qui, la sua estraneità alle logiche del contemporaneo, non vissuta, però, come una nostalgia dell’assoluto, come un rifugio egoistico, ma come battaglia estetica per una modernità diversa. In che termini? Forse solo nella direzione di un modo differente di concepire l’attività compositiva: non più come la restituzione di un progetto solo e soltanto linguistico, e dunque sommamente manieristico nel suo presentarsi quale esito scientifico di un’elaborazione intellettuale, quanto come atto simbolico di rappresentazione e comunicazione, nell’alveo del quale il compositore, al pari di un qualsiasi altro umanista, si pone il compito di mediare un senso estetico e di condividerlo. Se si riduce questo discorso a una mera differenzialità stilistica, si comprende davvero poco del nostro recente passato o dell’oggi: ciò che è sentito come anacronistico è spesso oggetto di stupida derisione – miopia, questa, di chi non sa porsi il problema di una “non-contemporaneità del contemporaneo” che è sempre presente e che è consustanziale alla modernità. Ora, la cifra originale di Testoni sta nel porsi parimenti contro la semplificazione del contemporaneo entro le forme banalizzanti del neotonalismo e contro quell’ormai storicizzata esperienza (divenuta, per paradosso, anch’essa una tradizione) che è l’avanguardia del Secondo Novecento, con le sue multiformi propaggini. E, lo si deve ribadire, questa scelta testoniana è immediata: la si vede cioè spiattellata senza requie nei suoi primi lavori, fino a divenire identificativa del suo ritratto di compositore nella maturità.
Bisogna allora ricavarne una lezione sul piano storico. La seconda metà del Novecento ha conosciuto l’inasprirsi di una tendenza che era latente fra le due guerre. La pratica compositiva, anche per influsso di dogmatismi filosofici in grado di dominare il quadro culturale, ha scelto un tipo di radicalizzazione linguistica che ha sposato i dettami dell’innovazione, producendo surrettiziamente un’idea di “nuovo” che liquidava anche le estreme conseguenze della modernità. Andava cioè a configurarsi lentamente quella liquidazione dell’individuo entro le maglie della pura tecnica – tradotta in schemi calcolanti, bellettristici, grafistici, quando non in un’esaltazione del particolare timbrico, scisso da qualsivoglia idea di totalità – che i migliori diagnosti denunciavano sin dal Dopoguerra come esito nefasto di una modificazione sistemica più generale. Il ritrarsi della musica colta in sé, fino a concepirsi quale contemporaneità fissa (da qui l’etichetta sempiterna di “musica contemporanea”), sposava, pertanto, una tendenza all’autonomizzarsi della sfera estetica, nel cui allestimento andava a legittimarsi il suo stesso darsi come arte nel mondo. Settorialismo che avrebbe prodotto, lo sappiamo, anche una politica di riconoscimento piuttosto feroce: l’omologazione a un blando concetto di sperimentalismo o di avanguardia escludeva, macchiandoli di pastiche postmoderno o denunciandoli per bieco conservatorismo, i linguaggi più tradizionali (e non ci riferiamo a quell’altrettanto contraddittoria semplificazione che è la stagione minimalista, per quanto segnaletica di un clima). A essere escluso, insomma, era un intero mondo che, in forme quasi resistenziali, continuava a concepire il moderno come un progetto incompiuto, che riconosceva nello sforzo degli ultimi grandi sinfonisti e nelle innovazioni delle avanguardie primonovecentesche una tensione al “nuovo” che tuttavia non mutava i caratteri umani e dialogici della musica. Un affluente così importante veniva sconvolto dall’egemonizzarsi di un discorso culturale anti-umanistico, dietro la facies paternalistica di un invito alla molteplicità. In tal senso, sul piano di una ricostruzione storica, si può dire che la mediazione delle avanguardie, contrassegnata da una lotta a ogni residualità umanistica, aprì le porte alla postmodernità, al culto banale delle differenze, alle incontrollate sinergie linguistiche, a un’idea semplificata del passato, ora concepito come luogo di un ludico saccheggio intellettuale, e infine a una nozione liquida, transeunte, inconsistente di soggetto. Il trucco fece passare le istanze neomoderniste per reazionarie (laddove un pionieristico Habermas aveva indicato, giustamente, che il postmodernismo inaugurava una nuova fase conservatrice); e l’idea di una storicità della musica come del tutto secondaria, perché non rispettosa delle più varie dimensioni prospettiche. Fino ad arrivare ai nostri giorni, segnati forse da un più pericoloso compromesso, che è sintomo di una resilienza ormai condivisa. Le retoriche dell’assoluta libertà stilistica – epifania di una prigione di senso che ha il volto dell’accettazione passiva di un tempo che riserva alla musica solo piccoli mercati di esistenza – oggi trovano nella de-storicizzazione del passato una legittimazione: dimentichiamo il conflitto, inauguriamo un nuovo corso in cui è possibile rastrellare i più vari stili, sembrano dire.
Ecco, se pensiamo al percorso compositivo di Giampaolo Testoni – e, accanto al suo, a quello di pochi altri –, la quota di falsità insita nell’appena menzionata posa culturale appare in tutta la sua evidenza: in più di quarant’anni di attività, Testoni ha continuato a concepirsi quale depositario di un’artigianalità stilistica che non fosse semplicemente il contrassegno egotistico di un artista irriducibile a se stesso, quanto l’unica chiave d’accesso a un’arte davvero socialmente condivisa. In questo, egli è un innovatore che guarda al passato o un anacronista che guarda al futuro: figure che però non rendono l’idea più genuina della sua attività, che è quella di un compositore che mostra, con la sua stessa opera e col suo sforzo di resistenza, una modernità altra, possibile, del tutto diversa. V’è pertanto un sostrato utopico ineliminabile – il suo tempo verrà, potremmo dire con Mahler. Ma nel senso concreto di un giudizio storico che non potrà fare a meno di mostrare l’assoluta centralità di questo agire compositivo, che descrive l’esistenza, lungo tutto il corso del Novecento, di traiettorie che sono state a torto considerate come minori e che invece riescono a trasmettere un’idea differente di innovazione, di dimensione estetica, di lavoro culturale.
Insomma, Testoni è un “caso” perché solleva dubbi sulla ricostruzione storica cui siamo abituati in materia di Novecento. È l’oggi che lo certifica. È il caso di ribadirlo. La paradossale condizione di una libertà infinita che paga il prezzo dell’irriconoscibilità sociale inchioda il compositore oggi a una rivendicazione solo e soltanto linguistica. La differenziazione stilistica appare come una questione esclusiva (che non si pone il problema della fine dello stile, cioè della soggettività). Se tutto ciò è pertinente, bisognerà forse attendere che una nuova forma sociale arrivi a concepire il compito del compositore e dell’artista in modo del tutto diverso: la strada, probabilmente, concerne una riconsiderazione del lavoro culturale. Molti fraintendono tale “missione” confondendola con la rinuncia alla sperimentazione e con l’adesione a un orizzonte comunicativo banalizzante (solitamente descritta con lo slogan del ritorno alla tonalità): tutt’altro; la posta in gioco è più alta, e forse chiama in causa problemi ancor più complessi, su cui occorrerà senz’altro riflettere in tempi non lontani.
La sfera artistica e culturale è oggi articolazione di un sistema più ampio: l’abolizione delle forme tradizionali dell’umanesimo si è convertita in una massificazione del gergo estetico da cui gli individui futuri saranno senz’altro invasi (a partire dalle minime percezioni sensoriali). Isolarsi e dunque consegnarsi a un nuovo gergo settoriale, nelle forme di un ormai assopito effetto di straniamento sul pubblico, significa oggi acquietarsi nella compensazione elitistica di appartenere a una qualche comunità virtuosa. Non potrebbe esserci errore più grande. Al pari di ogni altro intellettuale umanista, il compositore ha oggi l’obbligo morale e politico di orientare il proprio lavoro verso forme di aggregazione sociale capaci di riallestire un possibile alfabeto condiviso. I modi in cui questa ricostruzione del senso andrà configurandosi non sono oggi decodificabili e prenderanno forma attraverso le sollecitazioni del mondo sociale: basterebbe, per ora, porsi le giuste domande.
Ma queste domande è la musica di Testoni – un vero e proprio hapax del contemporaneo – a porle, e non solo nei termini di permanenza del moderno entro un tempo che, apparentemente, lo dissolve. Si guardi alla sua musica come struttura profonda di senso; si ascolti un brano come Frammenti lirici per grande orchestra (2012) oppure si guardi alla grande operazione di rilettura del depositum historiae collettivo che sta alla base delle più recenti Danze popolari immaginarie (2017): qui la tensione narrativa innesca un corpo a corpo con le più varie sollecitazioni esterne, riproponendo una loro riconfigurazione estetica, che non è mai sinonimo di riduzionismo formalistico o di esibito manierismo. C’è una disposizione all’incontro, a identificarsi fino in fondo con il materiale, senza però rinunciare alla tentazione di manipolarlo, gestirlo, costruirlo, abitarlo. In Testoni non esiste alcuna esaltazione dell’Io autoriale, purché si dia per necessaria la sua esistenza stilistica, la sua riconoscibilità. E ciò suona come uno scandalo per le coscienze musicali più agguerrite: perché l’originalità stilistica non è solo un mito categoriale, certamente ricco di contraddizioni e di ambiguità, ma anche un esito da tutti sottilmente desiderato. Dovremmo forse tirare in ballo il concetto di coerenza, se non fosse stato anch’esso sovrainvestito: eppure c’è un’unità linguistica di fondo che dai lavori di Testoni degli anni Ottanta conduce fino alle due opere che si presentano qui allestite. Tale unità linguistica è carattere moderno e, nello stesso tempo, attuale. Perché ci consegna la resistenza di un profilo totale nell’era della dispersione regolata e amministrata, oggi esibita come valore assoluto, in nome di una libertà solo fittizia. Direi persino che questa organicità della proposta testoniana trovi una splendida conferma nella sua opera di trascrittore: quando Testoni scompare dietro Schumann, nella sua resa orchestrale del Carnaval (1998), ci consegna un’ulteriore affermazione stilistica proprio in ragione delle sue capacità mimetiche (che ricordano ancora una volta Stravinskij, il suo rapporto con la musica del passato).
Ogni opera di Testoni è una sfida al contemporaneo e alle sue contraddizioni. Ed è anche, mi si permetta, una sfida di mestiere: di orchestratori così abili ne abbiamo pochissimi, oggi, nel mondo occidentale. La fase in cui siamo entrati, a partire dalla valorizzazione onnipervasiva delle avanguardie, mutatasi presto in una loro museificazione istituzionalizzata, ha segnato anche il collasso della funzione narrativa attribuita all’orchestra, anche quando quest’ultima è stata concepita quale veicolo per soluzioni “atmosferiche”, in verità assai nebulose. Il Secondo Novecento, tolte poche esperienze, è divenuto il tempo del soliloquio strumentale oppure il tempo dell’indistinto timbrico, accanto alla miscela linguistica e alla ricorsività dei moduli ritmici.
Da questo punto di vista, risulta ancor più decisiva la scelta di un teatro musicale che recuperi linearità drammaturgica, che esalti l’intreccio, l’agnizione, e che proietti tale complessità attraverso una resa sonora chiara, netta, persino ancillare alla rappresentazione. E risulta pregnante la volontà di Testoni – che qui esordisce anche come fine librettista, mostrando un’attenzione persino maniacale alle fonti e preoccupandosi di allestire importanti sinergie, in una forma critica di rilettura della traduzione – di recuperare un autore dimenticato (almeno in Italia) come Alfred de Musset, il cui teatro è certamente espressione di un Romanticismo in fiore, ricco però di tensione emotive e di complesse sfumature espressive, pur fermo in una struttura formale saldamente legata ai canoni della tradizione. Fantasio racchiude, del resto, i caratteri tipici del teatro d’immaginazione: lo scontro fra classi sociali, l’incontro tra le diverse identità e l’ambientazione in un luogo imprecisato sono filtrate da un’interrogazione costante sul motivo delle illusioni, delle fantasticherie, delle aspettative tradite, del sogno a occhi aperti. Non poteva Testoni – peraltro fondatore del Movimento neoromantico – non pescare da questo repertorio. E quel che si vorrebbe qui sottolineare è il modo in cui questa vicenda demussettiana viene trasfigurata dal virtuosismo coloristico del compositore milanese, caricandola di ulteriore senso. Si consideri la presenza dell’orchestra, che, pur nelle dimensioni ridotte, suona pervasiva, straussianamente pervasiva, sin dalle prime misure: il disegno ritmico che fiati e archi allestiscono ci conduce subito in un’ambientazione burlesca, nella quale, tuttavia, Testoni è abile a mostrare il gioco di finzione, di travestimento, di nascondimento. La musica regge questo medesimo gioco: nella misura in cui evidenzia il carattere psicologico non sempre lineare dei personaggi, il loro vivere alla luce di un continuo dissidio tra apparenza e realtà. Fantasio è un eroe moderno perché sconta tale frattura tra essere e voler essere: è il travestimento da buffone, adottato per migliorare la sua condizione economica, a generare in lui e negli altri cambi di rotta, possibili metamorfosi. È dunque un teatro musicale dell’identità – del resto, molto shakespeariano –, dell’incontro con l’altro-da-Sé, ma anche con quel profondo altro-da-noi che abita il nostro stesso corpo e la nostra stessa interiorità, al fondo sempre mutevole, sembrerebbe suggerirci la coppia De Musset/Testoni. E, per chi segue la produzione del nostro compositore, non sarà difficile cogliere le modalità espressive che Testoni qui adotta: il lirismo sempre molto rispettoso della parola, il colore orchestrale assolutamente nettissimo, pulito, nessun effetto impressionistico, una chiarezza di intenti che convive con una scrittura virtuosistica ma umana. L’atmosfera si carica di un certo surrealismo favoloso, non già per trascinarci in una dimensione di incredulità, quanto per proiettarci sul terreno di una commedia degli affetti, nutrita però di ambizioni psicologistiche. Il modello è anzitutto Rossini – l’ascoltatore potrà divertirsi a reperire citazioni dal Barbiere da La gazza ladra, che non hanno alcuna funzione meramente ornativa, ma fanno parte di quel rapporto col passato che per Testoni è vitale, tanto più quando rafforza l’obiettivo di un senso condiviso – ma un Rossini che è qui filtrato, quasi per paradosso, alla luce della grande tradizione operistica romantica (l’esperienza compositiva di Alice, in queste nuove commedie, si ritrova tutta per intero, come riferimento imprescindibile e come modello interno alla produzione di Testoni). Per sottolineare quanto l’idea rossiniana dell’equivoco e l’idea classicamente teatrale del travestimento, non a caso i protagonisti delle due commedie sono affidati a voci femminili.
In Fortunio il gioco degli intrighi e degli intrecci ci conduce in una dimensione interpersonale e domestica più evidente. La cura con cui Testoni costruisce i recitativi – si potrebbe parlare quasi di un intarsio –, rendendoli organici alla scrittura orchestrale, e pertanto melodizzandoli come fossero momenti di assoluta liricità, permette alla narrazione di dispiegarsi con una naturalezza musicale che in questo secondo episodio del dittico è davvero esaltata all’ennesima potenza. Si consideri a tal proposito il modo in cui le arie sgorgano dalla tessitura orchestrale, quasi Testoni concepisse il rapporto tra insieme musicale e scena alla luce di un tutto che trova ragione solo nella sua unicità. La finezza di studio psicologico rimanda allora al modo assai eterogeneo con cui l’intreccio strumentale è condotto: ogni strumento è qui protagonista al pari dei cantanti, o costituisce, come nella tradizione wagneriana e straussiana, un ideale controcanto alla pienezza illusoria del discorso testuale. Fortunio è tratteggiato con finezza introspettiva, anzitutto laddove la drammaticità lirica del personaggio si incontra e scontra con il mondo vitale ed eterogeneo dei commedianti.
Alcune atmosfere di Alice sembrano qua e là tornare, in questo dittico. Perché la musica di Testoni in sé reca i tratti di una realtà sonora favolosa e utopistica, che sa però incontrare anche con veemenza le tensioni più aspre del mondo reale. Ed è in effetti questo carattere terreno a enfatizzarsi in Fortunio, quasi vi fosse nella musica un’umana comprensione delle vicende, quasi si accostasse a quest’ultime con l’intento di commentarne, senza moralismi o paternalismi, le ambiguità, le contraddizioni, le difficoltà. Vi è, insomma, una direzione umanistica che emerge fortemente dalla cornice più generale di Fantasio e Fortunio. E si ritiene questa sia una delle qualità più dirompenti che il dittico sprigiona. Scrivere una commedia musicale strizzando l’occhio a Rossini non può essere casuale, in tempi come i nostri. È una presa di posizione sul teatro, sul suo destino, proprio in un momento in cui esso conosce, dopo anni di oblio, una, forse subdola, rivalutazione. Testoni è controcorrente anche in questo senso: nella scelta del soggetto, nel modo in cui concepisce il rapporto tra l’orchestra e la drammaturgia, nel senso musicale più profondo della sua proposta. Sembra cioè voler dire che uno sguardo leggero, ma non per questo banale, sulle vicende umane possa oggi darsi, a patto di assumerlo con una serietà di intenti, come studio appunto umanistico di valori, situazioni, episodi universalmente validi. È un teatro che mira alla concordia umana, non senza una sottile traccia di malinconia, come sempre accade nella musica del compositore milanese, che alterna momenti di folgorante vitalismo ad altri di struggente ombrosità. Ma sono questi caratteri che solo in una musica assolutamente moderna, e per questo profondamente umana, si danno e continuano a darsi. Di ciò dobbiamo essere grati a Giampaolo Testoni.

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